di Paolo Rizzi

La prima impressione è di sconcerto. Larve di figure galleggiano in uno spazio nebuloso, magmatico. Poi, lentamente, lo sguardo si organizza. La pittura di Etta Scotti acquista una sua fisionomia, anzi una sua logica. Si distingue il tracciato grafico di fondo, secco e geometrico, con le sue indicazioni prospettiche; la composizione acquista una sua organicità, un suo equilibrio armonico; e le forme si stagliano con plausibilità nella scenografia rarefatta di luce-colore. Continua a colpire il tipo di materia usata: quasi un encausto levigatissimo, sfumato, tutto trasparenze nella gamma madreperlacea. Ma invano si cerca un “significato”: la pittura sfugge, si rinchiude in se stessa, gioca a rimpiattino con l'emozione, impazienti si cerca di violarla. Un mondo lirico, tutto sospeso nella sua labilità.

Anzitutto un punto fermo: l'originalità di una tale impostazione. Etta Scotti vi lavora da vent'anni, con una specie di maniacale trasporto. È riuscita a creare un effetto tutto suo, con una sorta di alchimia elaboratissima: decine di passaggi di velature rendono smaterializzata la superficie, come qualcosa di etereo, impalpabile. Polvere raggelata. Dal fondo lattiginoso emergono velari di luce, macchie che si dilatano, venature marmoree, cere screziate. Non si tratta di raffinatezze fini a se stesse. Questo è lo spazio in cui la pittrice dosa sapientemente le sue presenze fantomatiche. Essa ha bisogno di creare un ambiente di trasparenze oniriche, per collocarvi i suoi silenti personaggi. Sono impronte arcane, anche se riconoscibili (figure umane, animali): si raggruppano nella galassia del colore-luce, sorrette da un tessuto quasi impercettibile di segni geometrici, come una ragnatela che allude ad un Demiurgo invisibile ma perfettamente consapevole, sovrano dello spazio. Ed è qui, in questo incontro-scontro tra pulsione dell'istinto e utopia della ragione, che si sviluppa il nodo di una immagante rappresentazione misterica. La pittrice par quasi fuori del quadro, in spasmodica attesa di un evento che deve accadere.

Che significa tutto questo? Credo che nella pittura di Etta Scoti vi sia una sorta di equilibrio immoto, apparentemente instabile, tra valenze diverse. Persino opposte. C'è l'attrazione di una vertigine spaziale che diventa puro sfogo fantastico, sogno ad occhi aperti: fuga verso l'irreale. E c'è la tensione mentale verso una definizione dell'ambiente che vuol essere padronanza della ragione, dominio sui sensi. Di qui la dicotomia irrisolta tra il segno preciso che vuol programmare l'architettura spaziale e la liquidità del pulviscolo cromatico. Sulla scena si gioca la gran partita tra istinto e ragione: cioè tra caos e ordine. Due mondi, il classico e l'anticlassico, si fronteggiano. Siamo in un momento categoriale magico, che ricorda gli albori del Rinascimento: ricorda (per fare un esempio) quel quadro sublime che è la “Flagellazione” di Piero della Francesca. Anche lì il mondo gotico e il mondo classico si ritrovano in una dialettica di bilanciamenti che scioglie le nebulose del senso.

In realtà, la stessa interpretazione potrebbe essere data, sul piano freudiano, per i dipinti della Scotti. C'è in essi l'attrazione da un parte per ciò che è dilatazione romantica, di fondo esistenziale e psichico, e dall'altra per ciò che risponde ad una razionale coordinata spazio-temporale. Ma si potrebbe andar oltre nell'interpretazione: dire, cioè, che si confrontano nello stesso quadro il segno toscano, lucido e paradigmatico, e il colore-luce delle temperie veneta. D'altronde, è nell'utopia palladiana che si risolvono le contraddizioni: e l'uomo ritrova una natura amica. Certo è che, nella Scotti, l'equilibrio resta sotteso a fior di pelle, con tutta una sua fragrante suggestione.

Autunno dei sensi, aurora della ragione?

Forse è proprio questa ambiguità, o meglio polivalenza, che rende così fascinosa la pittura di Etta Scotti. Dalla forma distrutta e dissolta rinasce, come l'araba fenice, una nuova forma. La nebulosa del senso lascia intravvedere l'architettura dello spirito. L'aria si fa trasparente, da affocata che era. Noi restiamo attoniti di fronte a questa metamorfosi, che impercettibilmente avviene all'interno della pittura. L'occhio osserva la mano che traccia i suoi labili ma fermissimi segni. Sentiamo da lontano l'eco della pittrice che sussurra:«Ecco, lì dentro mi sento veramente libera».

Utopia palladiana, temperie veneta e segno toscano

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